CUSTODIAMO LA MEMORIA PERCHÉ CERTI ORRORI NON SI RIPETANO

Nell’anno 2000 il Parlamento italiano con un’apposita legge (211 del 20 luglio) ha istituito il Giorno della memoria, in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti, scegliendo la data del 27 gennaio, giorno in cui le truppe sovietiche arrivarono ad Auschwitz e liberarono i prigionieri dal campo di concentramento nazista.

Cinque anni dopo (1 novembre 2005) l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 60/7, fissa lo stesso giorno del 27 gennaio per la giornata internazionale di commemorazione delle vittime della Shoah. Molti paesi nel mondo si sono allineati su questa data per ricordare l’Olocausto, altri hanno scelto date diverse, parimenti significative, come il 16 luglio per la Francia, quale anniversario del rastrellamento di più di 13000 ebrei francesi nel Velodromo di Parigi, avviati poi ad Auschwitz per lo sterminio.

Tornando alla scelta italiana all’epoca ci fu un vivace dibattito (in Parlamento e fuori) sulla data del 27 gennaio perché il deputato Furio Colombo, proponente della legge, aveva indicato il 16 ottobre 1943, giorno in cui a Roma ci fu il rastrellamento nazista nel ghetto degli ebrei che determinò la cattura e l’avvio ad Auschwitz di 1022 ebrei (207 bambini), dei quali solo 16 sopravvissero e fecero ritorno, e tra questi una donna, Settimia Spizzichino.

Ma nonostante la drammaticità dell’evento, scegliere la data del 16 ottobre quale Giorno della memoria significava escludere il sacrificio di quei deportati militari e politici non ebrei ; la proposta fu perciò riformulata da Colombo con la data del 27 gennaio per includere nel ricordo tutte le vittime italiane. La legge fu approvata all’unanimità sia dalla Camera dei deputati che successivamente dal Senato.

 

Riportiamo di seguito  alcuni contributi:

La retata del ghetto a Roma

Il ricordo della retata del ghetto avvenuta il 16 ottobre 1943 è sempre stato molto vivo tra i romani, anche perché la crudele operazione di rastrellamento e di avvio al campo di sterminio colse di sorpresa e in modo beffardo la comunità ebraica che nei giorni precedenti, su richiesta di Kappler in cambio della incolumità degli ebrei romani, aveva freneticamente raccolto e consegnato al comando tedesco 50 chili di oro! Ogni anno , dal 1994, il 16 ottobre si svolge a Roma la Marcia della memoria che parte dal Campidoglio e arriva al Portico d’Ottavia nel ghetto, con la folta partecipazione di istituzioni e cittadini; nel 2023 in occasione dell’ottantesimo anniversario ha partecipato anche il Presidente della Repubblica.

Per chi volesse conoscere il dettaglio di quella infausta giornata romana suggerisco la lettura del racconto “16 ottobre 1943” edito da ET Einaudi, con la prefazione di Natalia Ginzburg, di Giacomo Debenedetti che scampato alla retata – ebreo ma da tempo scrittore e sceneggiatore sotto falso nome- ha potuto osservare, nascosto, il tragico svolgimento dei fatti.
Daniela Ciarolla

 

RILEGGENDO PRIMO LEVI:  LA SHOA, IL LAGER, LA VERGOGNA DEL MONDO

Il tramonto di Fossoli

Io so cosa vuol dire non tornare. / A traverso il filo spinato / Ho visto il sole scendere e morire; /
Ho sentito lacerarmi la carne / Le parole del vecchio poeta:/ “Possono i soli cadere e tornare: / A
noi, quando la breve luce è spenta, / Una notte infinita è da dormire”.

7 febbraio 1946

Il superstite

Since then, at un uncertain hour, / Dopo di allora, ad ora incerta , / Quella pena ritorna, / E se non
trova chi lo ascolti / Gli brucia in petto il cuore. / Rivede i visi dei suoi compagni / Lividi nella prima
luce, / Grigi di polvere di cemento, / Indistinti per nebbia, / Tinti di morte nei sonni inquieti: / A
notte menano le mascelle / Sotto la mora greve dei sogni / Masticando una rapa che non c’è. /
“Indietro, via di qui, gente sommersa, / Andate. Non ho soppiantato nessuno, / Non ho usurpato il
pane di nessuno, / Nessuno è morto in vece mia. Nessuno./ Ritornate alla vostra nebbia. / Non è
colpa mia se vivo e respiro / E mangio e bevo e dormo e vesto panni.”

4 febbraio 1984
In queste due poesie tratte da Ad ora incerta (1984) Primo Levi, testimone esemplare della Shoah, esprime un duplice dramma: il dramma di chi, come lui, ha vissuto l’esperienza degradante del Lager e il tormento degli insopportabili sensi di colpa che funestarono il suo ritorno alla vita e alla libertà.
Levi poté salvarsi dalla morte nel campo di concentramento perché le sue competenze di chimico gli garantirono condizioni materiali migliori; scampato ad Auschwitz, non poté sopravvivere a se stesso, schiacciato dalla vergogna di un “privilegio” immeritato, e si uccise nel 1987 dopo aver affidato al libro I sommersi e i salvati  il suo  testamento spirituale.
La lucida analisi che si legge in queste pagine resta un caposaldo ineludibile per chi voglia celebrare la giornata della memoria evitando il rischio sempre incombente della retorica e  della semplificazione  manichea, di comodo, che contrappone  “buoni” e  “cattivi” nel teatro della storia.
Il Lager, ci insegna Levi, alberga in ognuno di noi. Persecutori e vittime furono allora, e potranno essere sempre, persone comuni, “banali”, né demoni né angeli, al di fuori di ogni eccezionalità.
Uomini comuni con sentimenti comuni, senza altri aggettivi.  E’ questo che va, in primis, ricordato. Perché “la memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace”, dice Levi. La insidia il tempo, la tendenza a sclerotizzare gli eventi in stereotipi e soprattutto a piegarli, nel ricordo,  a nostro vantaggio.  La insidia, anche, la rappresentazione che ci costruiamo degli attori che li vivono.
A questo proposito, nella prefazione al testo Tzvetan Todorov scrive: “Se ci identifichiamo con le vittime innocenti, questo ci dà il diritto di esigere riparazioni; se ci identifichiamo invece con eroi irreprensibili, questo ci permette di passare sotto silenzio i nostri misfatti. Basta cioè cambiare luogo, etichetta, circostanze, e non vediamo più nessun buon motivo per trarre dal passato lezioni che potrebbero applicarsi anche a noi”. E ancora, a dimostrazione di questo assunto: “I dirigenti israeliani non ignoravano niente, se ne può essere certi, delle persecuzioni subite dagli
ebrei durante la guerra; ciò non ha impedito loro, in diversi momenti della storia recente, di perseguitare a loro volta i palestinesi che avevano il torto di trovarsi ancora su quella terra che aveva smesso di essere la loro”; con i nefasti effetti cui, purtroppo, ancora oggi drammaticamente assistiamo.
Levi ci mette in guardia da un’altra elaborazione del ricordo, più sottile ma non meno pericolosa: quella di chi assolve se stesso ponendo l’accento sulla pressione esercitata sull’ individuo dal regime totalitario, che ne annienta le possibilità decisionali con la propaganda, l’educazione, il terrore.
La sua lezione è dunque meno scontata di quanto apparentemente sembri: “E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo” implica la consapevolezza che tenere alta la guardia nelle distorsioni della memoria è importante quanto e forse più che ricordare – e celebrare – tout court.
Implica la consapevolezza che ci sono atteggiamenti “comuni” e “banali” che possono perderci e precipitarci di nuovo nelle tenebre della ragione, in particolari contingenze della storia. Questi atteggiamenti sono, chiarisce Walter Barberis nella Postfazione, il conformismo, l’acquiescenza deferente, zelante e acritica all’autorità, l’egoismo di gruppo, l’orgoglio identitario;  sono, scrive Levi, il radicalismo, la hybris; l’arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione come quelli che connotavano l’ebreo Rumkowski, divenuto nel 1940 decano del ghetto di Lodz  – caduto poi  in disgrazia per queste stesse sue peculiarità e a sua volta deportato – ed emblema di quella “zona grigia” ove persecutori ed oppressi si sovrappongono in una singolare coincidenza;  sono, ancora, l’incredulità, la rimozione, la ricerca di rassicuranti verità consolatorie.
E ciò che non si deve mai dimenticare di provare è la “vergogna” nei confronti del dolore che l’uomo può infliggere all’uomo e che allora venne inflitto, osserva Levi,  non solo per raggiungere uno scopo, che per quanto moralmente abietto rappresenta pur sempre una motivazione “logica” e “razionale” – ovvero che la ragione può afferrare, certo non giustificare –  ma anche in modo totalmente gratuito e pertanto del tutto incomprensibile.  Una sofferenza disumanizzante e fine a se stessa era la norma dei Lager e non può, non deve, cessare di suscitare “la vergogna del
mondo”:  quella vergogna che non prova solo chi preferisce non vedere, non ascoltare, non agire davanti all’orrore, come  fece  nei dodici anni hitleriani la maggior parte dei tedeschi, rimasti inerti  in una colpevole connivenza passiva.
Una vergogna, scrive Levi, che va coltivata come una difesa immunitaria, una sorta di vaccino che ci preservi dai possibili ritorni di Auschwitz nelle sue varie forme, che attivi la nostra pronta reazione dinanzi all’infittirsi di foschi segni premonitori o, peggio, di evidente infezione. Una vergogna vigile e consapevolmente memore, dunque: la sola che  possa difendere la nostra  fragileumanità, con i nostri “comuni” limiti,  da noi stessi.

Rosalaura Ballerini

L’Abruzzo di Gertrude Goetz
“L’emozionante testimonianza di una bambina ebrea austriaca confinata, con i genitori, a Castilenti dal 1942 al 1944 e il suo affettuoso riconoscente ricordo della popolazione locale, podestà e parroco compresi.”
Ho conosciuto Gertrude Goetz a Castilenti il 28 luglio 2012 in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria. Gertrude (Gerti) era nata a Vienna il 7 settembre 1931. Aveva 8 anni quando giunse nel 1942 a Castilenti, un piccolo paese abruzzese sulle colline tra mar Adriatico e Gran Sasso d’Italia, tappa di un doloroso viaggio iniziato nel 1939 per sfuggire alle persecuzioni razziali, dopo il rilascio del padre dal campo di Dachau.
Gerti come ebrea non poteva essere ammessa a scuola. Eppure dopo alcuni mesi di confino, il direttore didattico si assumerà la responsabilità di inserirla in classe, rischiando pesanti conseguenze, mentre le suore la ammisero a frequentare corsi di cucito, come documentato da una foto a lei rimasta molto cara (nella foto è la ragazzina con il colletto bianco). La famiglia priva di mezzi veniva aiutata dalla popolazione: “brava gente che non ci tradiva”.

Dopo l’8 settembre 1943, i tedeschi occuparono il paese. La posizione della famiglia Goetz, come quella di migliaia di ebrei in Italia, divenne allora pericolosissima. Il podestà dell’epoca, Antonio Savini, li invitò a scappare appena il giorno prima del rastrellamento tedesco, rischiando personalmente. Da lì iniziò una fuga per le montagne cercando di superare il fronte a sud della Linea Gustav.
Con un treno arrivarono a Nardò, in Salento. Qui Gertrude conobbe Samuel, ebreo polacco, al quale i
tedeschi avevano ucciso i genitori, che divenne il compagno della sua vita.
Nel 1949 la famiglia Goetz lasciò l’Italia e l’Europa per cominciare una nuova vita negli Stati Uniti.
A distanza di tanto tempo, la Goetz raccolse i ricordi della sua difficile infanzia in un libro pubblicato negli Stati Uuniti, dove è stata bibliotecaria e docente di liceo a Los Angeles, con il titolo “Memory of Kindness: Growing UP in War Torn Europe” (Memoria di infanzia: crescendo nell’Europa in guerra”).
L’edizione americana presenta in copertina una foto di Castilenti.
In Puglia, la Besa Editrice di Bari (www.salentobooks.com), ha pubblicato l’edizione italiana del racconto della Goetz con il titolo “In segno di gratitudine”, nel quale racconta la sua storia di ebrea perseguitata dalle leggi razziali e di come nel paese teramano trovò accoglienza, amicizia, solidarietà, umanità e
salvezza, senza che “razza” e religione fossero motivo di esclusione.


La Goetz sembra provare le medesime sensazioni avvertite da Natalia Ginzburg, anch’ella internata quegli
anni in Abruzzo, sul versante opposto del Gran Sasso, a Pizzoli (cft. Le piccole virtù, Einaudi, Inverno in
Abruzzo, 1962).
Personalmente conserverò il suo ricordo, insieme a quello del marito, nella piazza affollata di Castilenti,
la sua emozione e quasi incredulità nell’incontrare e riabbracciare l’amica Maresa e i coetanei di un tempo
lontano ma sempre vivo nella memoria.

Francesca Esposito

 

LA MUSICA DELLA SHOA: L’ASCOLTO DELLA MEMORIA.

La memoria dell’orrore dell’Olocausto va tutelata, come missione e al tempo stesso come impegno civile che numerosi artisti hanno voluto portare avanti in questi anni.
Scrittori, poeti, pittori, scultori, musicisti e registi si sono espressi e si esprimono ancora oggi in un vasto patrimonio creativo che racconta, coinvolge, emoziona, commuove ma, attraverso il ricordo, riesce ad accendere la speranza.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale anche la musica è diventata uno strumento della memoria collettiva, sia per i superstiti e che per le generazioni successive. Ci si sorprende ancora una volta a scoprire come il linguaggio musicale, che parla all’anima senza incontrare ostacoli, riesca sempre a veicolare il dolore, contestualizzi eventi, amplifichi ricordi e funga da auto-regolatore delle emozioni.
È esistita anche una musica dei lager, una pagina ancora poco conosciuta, che testimonia la consapevolezza che anche nei campi di sterminio, essa ha assolto la sua funzione terapeutica e in certi casi, salvifica.

Nel campo di sterminio di Auschwitz era stata formata un’orchestra femminile, composta in particolare da ragazze polacche e da deportate ebree provenienti da mezza Europa.
L’orchestra aveva un compito terribile: suonare al cancello del lager quando le squadre dilavoro uscivano al mattino e rientravano alla sera. I gruppi di lavoro erano composti da prigionieri, impiegati come schiavi nelle fabbriche nei dintorni di Auschwitz: secondo i nazisti, la musica avrebbe allietato il loro compito. Tra le altre, nell’orchestra erano presenti la straordinaria violinista Alma Rosé, nipote del compositore Gustav Mahler, la violoncellista Anita Lasker e la cantante Fania Fénelon. Le orchestrali potevano godere di alcuni piccoli privilegi: il cibo per loro era leggermente migliore, la baracca dove
dormivano era più calda d’inverno. Ma i loro cuori erano spezzati dall’idea di fare musica per chi veniva condannato a morte.

Nei campi furono deportati anche compositori e grandi musicisti che hanno continuato a coltivare la propria passione a volte di nascosto, a volte con il favore delle SS. Era l’unica via di fuga dall’orrore quotidiano, era affermazione della propria umanità e di resistenza alla morte. Sono state ritrovate pagine di musica trascritte su pezzi di stoffa, sacchi di juta, carta igienica o in mancanza di altro, tramandate a voce, nella speranza che qualche sopravvissuto potesse portarle nel mondo.
Più di ogni altro, il campo di concentramento di Theresienstadt (Terezín) è stato scenario di una ferventissima vita musicale per i numerosi compositori e musicisti rinchiusi, che hanno proseguito fin quando è stato possibile l’attività di composizione ed esecuzione delle loro opere.
Il compositore e pianista Francesco Lotoro si è occupato di ricercare e documentare queste preziose pagine di musica, e in trent’anni ha raccolto oltre 5000 composizioni musicali nate nei lager nazisti. “La musica prodotta in cattività aveva poteri taumaturgici, rovesciava le coordinate umanitarie dei siti di prigionia, polverizzava le ideologie alla base
della creazione di Lager e Gulag. Forse non salvava la vita, ma sicuramente questa musica salverà noi”. (Francesco Lotoro)
I brani proposti per l’ascolto in questa breve selezione sono alquanto eterogenei: spaziano dalla tradizione corale ebraica al cantautorato, dalla musica classica fino alle più celebri colonne sonore di film sull’Olocausto. Ci accompagneranno e guideranno alla scoperta della musica come strumento di memoria.

 BRUNDIBAR di Hans Krása.
Il compositore contribuì a realizzare una densa vita culturale nel campo di concentramento di Theresienstadt (Terezín) prima di essere deportato e ucciso nel 1944 ad Auschwitz.
Nell’opera in due atti Brundibar, i bambini di Terezín trovano l’espressione collettiva dei loro sentimenti di rivolta e resistenza al male.

GAM GAM di Elie Botbol

Gam Gam è una canzone scritta da Elie Botbol che riprende il quarto versetto del testo ebraico del Salmo 23. Una lunga tradizione attribuisce la paternità del salmo a re Davide, in quanto anche nella Bibbia si afferma che egli stesso, da giovane, sia stato un pastore.
Nel Salmo 23, Davide dimostra di “conoscere” Dio, Egli è fonte di coraggio e conforto anche nei momenti più bui dell’esistenza:
Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei alcun male, perché tu sei con me;
il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza.
Il testo, tradizionalmente cantato dagli ebrei durante lo Shabbat, è diventato anche un simbolo, uno degli “inni” più toccanti dell’Olocausto che riguardò più di un milione e mezzo di bambini uccisi dai nazisti, cantata da scolaresche nel Giorno della Memoria, e fa parte della colonna sonora del film “Jona che visse nella balena” di Roberto Faenza. Nella pellicola il canto viene insegnato dalla maestra a Jona e agli altri bambini nel lager.
È cantata dal coro franco-israeliano Chevatim e diretta dal direttore Elie Botbol.
Nella versione resa famosa dal film, l’arrangiamento è in klezmer, uno stile musicale
ritmato e con orchestrazione complessa, originario delle comunità ebraiche yiddish
dell’Europa centro-nord-orientale.

SCHINDLER’S LIST di John Williams

Questa proposta nell’ascolto è una struggente versione del tema principale del film, eseguita dal violinista israeliano Itzhak Perlman, che sa unire una tecnica altamentevirtuosistica e un suono di grande limpidezza ad un’innata musicalità, capace di modellareil fraseggio mettendo in luce anche i più piccoli dettagli della partitura.
OYFN PRIPETSHIK (THE GIRL IN RED). Scena tratta da Schindler’s List

Nel realizzare la toccante scena della bambina col cappotto rosso, Polanski ha voluto rendere omaggio alla poesia “Scarpette rosse” (1945) della poetessa e partigiana italiana Joyce Lussu.
Le scarpette rosse evocate hanno nell’immaginario comune lo stesso effetto del cappotto rosso indossato dalla bambina in  Schindler’s List  che emerge in contrasto sullo sfondo in bianco e nero: utilizzando la forte connotazione visiva, Polanski cattura lo sguardo dello spettatore, evidenziando senza sconti una tragedia che non può essere in alcun modoignorata. Unica nota di colore, il rosso, diventa barlume di vita in mezzo al grigiore mortifero dei campi; tutta la sequenza filmica è accompagnata dal dolcissimo canto Oyfn Pripetshik, antica canzone yiddish per bambini, composta da Mark Warshawski (1948- 1907). Il testo parla di un rabbino che insegna ai bambini l’alfabeto ebraico. I prigionieri, ridotti a un semplice numero tatuato nei campi di concentramento, riconquistavano segretamente la propria umanità canticchiando le melodie della loro infanzia. “Quando invecchierai, capirai, quante lacrime e lamenti risiedono in questi testi”.

 LA VITA È BELLA di Nicola Piovani.
Versione orchestrale

Versione della cantante israeliana Noa (Achinoam Nini)

 AUSCHWITZ di Francesco Guccini

MOVING TO THE GHETTO di Wojciech Pilar.

Brano dal tema molto semplice, ma profondo, dal suono ebraico. Tratto da The Pianist
(2002), film drammatico biografico sulla guerra prodotto e diretto da Roman Polanski,
basato sul libro autobiografico The Pianist (1946), un libro di memorie sull’Olocausto del
pianista e compositore ebreo polacco Władysław Szpilman, un sopravvissuto
all’Olocausto.

BALLATA IN SOL MINORE di Fryderyk Chopin. (The Pianist)

Il brano di Chopin, grazie alle sue caratteristiche compositive, si adatta perfettamente a
questa scena del film. Le prime battute creano un’atmosfera di incertezza: il pianista
sembra raccogliere i suoi pensieri, esita e verifica se può ancora suonare, e poi…il potere
salvifico della musica compie il suo miracolo, persino nel contesto di orrore e disumanità
del ghetto di Varsavia.

 YEDER RUFT MICH ZIAMELE di Bernardo Feuer

Tutti mi chiamano Ziamele”, fu scritta dai bambini del ghetto di Kovno, i quali eranosoliti costruire un fantoccio che rappresentava Hitler e, cantando questa melodia, loseppellivano in una fossa scavata nella terra.

DANCE ME TO THE END OF LOVE di Leonard Cohen

Scritta nel 1984 da Leonard Cohen, “Dance Me To The End Of Love” si ispira alla storiadel quartetto d’archi obbligato ad esibirsi nei campi di concentramento, presso i forni crematori, mentre l’orrore veniva perpetrato. Cohen descrisse così la canzone: “Suonavano musica classica mentre i loro compagni di prigionia venivano uccisi e bruciati.
Così quella musica “Fammi danzare verso la tua bellezza con un violino in fiamme“significa la bellezza della conclusione dalla vita, la fine dell’esistenza e dell’elemento ardente in quella conclusione. Ma è lo stesso linguaggio che usiamo per arrenderci al nostro amore”.

UN SOPRAVVISSUTO DI VARSAVIA di Arnold Schonberg 
Oratorio per voce recitante, coro maschile e orchestra. In stile dodecafonico, è uno deiprimi e più celebri brani musicali ispirati all’Olocausto. L’opera fu presentata per la prima volta il 4 novembre 1948 ad Albuquerque (New Mexico) dalla locale Civic Symphony Orchestra sotto la direzione di Kurt Frederick.

 

Antonella Trisi