📕📕 Il Gruppo di lettura  “Parole in Giardino” si è incontrato in presenza e in collegamento online su Skype il 18 gennaio 2024 presso la sede dell’Associazione SmartLab Europe  a Pescara.

Le lettrici del GdL  hanno condiviso, come al solito, pensieri, emozioni  e riflessioni sulla lettura del romanzo “ Grande Meraviglia” di  Viola Ardone.

Il libro è il terzo della scrittrice, che a partire da Il treno dei bambini e poi con Oliva Denaro, ha tracciato un’ indagine su alcuni temi importanti della storia italiana nel corso del Novecento, sottolineando la continuità della sua analisi attraverso personaggi che si intersecano da testo a testo  con funzioni diverse.

Tutte le lettrici presenti hanno affermato di essere state coinvolte moltissimo dal romanzo, dalla storia, dai personaggi, dallo stile e dal tipo di narrazione. L’incontro si è svolto  con un ricco confronto dei diversi  punti di vista, riflessioni e  suggestioni che hanno animato una interessante  discussione. Sono emerse analogie con il film “La vita è bella” di Benigni quando cioè una realtà terribile viene resa vivibile ad un bambino – in questo caso Elba – attraverso la trasformazione in una specie di gioco favoloso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INCIPIT 

 Parte Prima – 1982

Il mezzomondo è la casa dei matti, ci stanno i cristiani che sembrano gatti: non hanno la coda, non sanno miagolare, però sono gatti. Gatti da legare. Stamattina è arrivata una Nuova e le ho dovuto spiegare tutto daccapo: in principio c’è Colavolpe, poi Lampadina, poi gli infermieri, poi i sorveglianti, poi nulla, nulla, nulla, poi sempre nulla. E infine i matti. Devi sapere per prima cosa che qui è come il mare: ci sono le Tranquille e ci sono le Agitate. Un mare chiuso ma sempre mare, e in ogni mare si può navigare. Dentro al mezzomondo ci sta pure Elba, che sono io, ma per me questo è il mondo intero, perché il resto che c’è non so neppure cos’è. Ahà. La Nuova non parla, non dice il suo nome. All’inizio è cosí: fanno spesso il silenzio, poi alcune partono e non si fermano piú, dicono insalate di parole, una lingua segreta che nessuno capisce. Ed è inutile starle ad ascoltare quando cominciano a burbureggiare. Nessuna risposta. Conto fino a cinque virgola sei e poi ricomincio. Vuoi sapere perché mi chiamo Elba? Chiedo alla Nuova. Lei strizza l’occhio sinistro: lo prendo per un sí. È il nome di un grande fiume del Nord che passa per la Germania, me lo ha dato la mia Mutti, che in tedesco significa mamma. Lo sai tu dov’è la Germania sulla carta geografica? Ce ne sono due: una gialla e una arancione, cosí ho imparato alla scuola delle Suore Culone, dove mi hanno mandata quando avevo nove anni, per farmi studiare. La mia Mutti veniva da quella arancione, che però adesso è tutta chiusa dentro al comunismo. Ci hanno fatto un muro intorno, proprio come qui al mezzomondo, nessuno può entrare o può uscire, solo i fiumi scorrono liberi, perché non li si può fermare. Il fiume che porta il mio nome attraversa la Germania arancione e si getta nel Mare del Nord. Tutti i fiumi arrivano al mare, diceva la Mutti. La Nuova si attorciglia nella coperta come una gatta scontrosa. Io mi sfrego con la nocca dell’indice la piccola gobba che ho sul naso tre virgola quattro volte e riprendo a spiegare. La Mutti è scappata tanti anni fa dalla Germania arancione, però è finita ugualmente dietro un muro. L’hanno internata qui, ma non era da sola: aveva già me nella pancia, e tante cose dentro la testa. La matematica, le lingue straniere, i nomi di tutte le specie animali e vegetali, e la pazzia.

Abbiamo iniziato l’incontro esprimendo le parole chiave del romanzo  raccolte  in un unico pannello.

Come di consueto, riportiamo di seguito alcuni appunti  di discussione e di approfondimento  utili  per chi ha partecipato e per chi non ha potuto partecipare, per chi ha letto il libro e per chi non ha potuto leggerlo.

In questo libro si racconta la storia di Elba, una ragazza nata in un manicomio di Napoli, il Fascione, da una mamma ricoverata solo perché adultera e con una gravidanza fuori dal matrimonio.  La quindicenne Elba, che vive lì da persona sana fino alla sua completa adolescenza, tranne il periodo delle scuole medie in un orfanotrofio,  inizia a raccontare nel 1982, a quattro anni di distanza dalla legge 180 del 1978  sull’abolizione dei manicomi, che però quasi ovunque, sono in pieno funzionamento. (Da una ricerca su Google risulta che l’ultimo manicomio a Siena è stato chiuso nel 1999).

Le pagine sono molto toccanti, soprattutto quelle della prima e terza parte narrate direttamente dalla protagonista sul rapporto con la mamma: “con lei non c’era mai nulla di male e se piangevo si metteva a cantare… tra noi parlavamo la lingua segreta della Germania, per conservare i nostri pensieri nascosti dagli altri” (pag 9). E’ angosciata dal distacco, quando torna dall’ orfanotrofio le dicono che è morta, ma non ci crede perché sente  da lontano, dove è stata rinchiusa, i suoi lamenti e aspetta sempre di rivederla, di abbracciarla. “Io sono rimasta qui, la casa è dove c’è la madre” (pag.147). Anni  dopo, constatata che la mamma è fuori di sé anche per gli elettrochoc subiti, si convince ad andar via, con la grande solidarietà ed aiuto del medico che l’ha sempre protetta e le sollecitazioni di un’infermiera che la implora “lascia questo ospedale, questa città, sposati…mettiti a lavorare. Tu meriti salvezza” (pag.171).

L’Autrice mette a confronto, attraverso i due medici, Colavolpe il primario e Meraviglia il suo vice, l’ideologia coercitiva che ha ispirato per secoli il trattamento dei malati psichici – considerati irrecuperabili e pericolosi – e l’ideologia basagliana che nel prevedere la chiusura dei manicomi ha valorizzato la centralità dell’individuo tentando un suo recupero nella vita sociale. Infatti mentre Colavolpe dichiara che il suo mestiere è quello di fare il “mastrogiorgio” (pag. 32) – che in dialetto napoletano vuol dire castiga matti- e non altro, Meraviglia convoca i ricoverati in giardino e li fa divertire organizzando una partita di pallone (pag. 69 e seguenti) e in un’altra occasione fa scoprire loro la neve (pag. 89).

Con l’avvicendamento del dottor Meraviglia alla direzione del carcere le terapie repressive come l’elettrochoc, la camicia di forza, le sbarre alle finestre, la contenzione meccanica sono bandite ma gli obiettivi per una tutela della salute mentale sono lontani dall’essere raggiunti. Su queste carenze riflette anche Meraviglia quando ricorda le parole di  Basaglia: “ noi non possiamo VINCERE perché è il potere che vince sempre. Noi e’ già tanto se riusciamo a CONVINCERE”(pag. 105).

Il nostro gruppo  ha già discusso questo argomento l’anno scorso dopo la lettura di “Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli e “L’esatta sequenza dei gesti” di Fabio Geda. Nel primo Daniele si salva con l’amore della famiglia e le chiacchierate con Mario, piuttosto che con le istituzioni,  così come Elba si salva con la solidarietà e l’aiuto di Meraviglia. Al libro di Geda mi ha fatto pensare quanto scrive Elba nella lettera a Meraviglia alla fine del libro (pag.296) “so che ogni cura  è un’illusione, una bugia minore detta per consolare le anime dei semplici “. Ho visto questa affermazione di Elba come un atto di resa rispetto alla gravità dei disagi, come nel blog di Ascanio, l’operatore della casa famiglia de “L’esatta sequenza dei gesti”: “il nostro è un lavoro in cui si passa più tempo a elaborare sconfitte che a celebrare vittorie”.

Una riflessione non secondaria riguarda Fausto Meraviglia, un GRANDE perché crede nella validità della Basaglia e la  pratica sposandone i contenuti, in un contesto difficile anche per l’ ostinazione di colleghi ed operatori. La meritevole dedizione al lavoro assorbe però la sua vita personale e familiare, determina una ovvia carenza nei rapporti con la moglie e con i figli. Si ritrova all’età di 75 anni a fare un bilancio della sua vita e a raccontare nella seconda e quarta parte del libro  i fatti del passato ma anche (secondo me con eccessiva verbosità) il rammarico e la sofferenza per tanta solitudine in cui è stato lasciato dai suoi.

In Grande Meraviglia gli argomenti sono molto dolorosi ma Viola  Ardone li tratta in modo disinvolto e persino dissacrante. Mi riferisco ai soprannomi che Elba dà alle persone: le suore culone, le infermiere Gillette e Lampadina, la nonna Sposina, la Nuova… Fanno sorridere anche le rime che aprono ogni capitoletto, intervallate nel testo (matta la madre matta la figlia matta tutta la famiglia) anche con frequenti richiami agli slogan pubblicitari ( chi non mangia una Golia o è un ladro o è una spia). Infine una curiosità sulla Scrittrice che vuole creare tra i suoi racconti un filo conduttore con alcune figure secondarie ma  salvifiche. La prima in ordine di tempo ad apparire è Maddalena Criscuolo dell’UDI che organizza a Napoli il treno dei bambini; la ritroviamo in Oliva Denaro a procurare un contatto della protagonista con avvocato a patrocinio gratuito. La seconda è Liliana Calò’ l’amica emancipata di Oliva Denaro, giovane quindi negli anni 60, che ritroviamo alla fine degli anni 80 professoressa universitaria di psicologia (impegnata a fianco delle donne che vivono in condizioni di difficoltà) con cui Elba prepara la tesi.

Chissà nel prossimo romanzo dell’Ardone chi sarà l’angelo di turno?

Daniela C.

Leggendo il  romanzo della Ardone ho ripensato molto a quello di Tobino che tratta lo stesso argomento ” Per le antiche scale ” del 1972 e vincitore del premio Campiello. M.Tobino aveva sviscerato molto bene il tema delle malattie mentali trattate in quasi tutte le sue opere. La Nardone non arriva alla profondità descrittiva e di ricerca di Tobino, d’ altra parte non è medico specializzato in questa disciplina, tuttavia dà al suo racconto un risvolto molto umano inserendo il personaggio di Elba che matta non è ma vive in manicomio per poter vedere la madre, la sua mutti che in manicomio ci vive da reclusa, da paziente e che non potrà mai sperare di poterne uscire. Tutte le considerazioni che la Ardone vuole trarre dalla vicenda narrata, passano attraverso lo sguardo e il giudizio di Elba, la protagonista che più volte racconta, non al lettore ma alle “nuove” che arrivano, tutti gli accadimenti ed i personaggi  malati, medici e infermieri che in quel reparto vivono le loro giornate. Mi è’ sembrato molto rischioso, per  l’apparente veridicità che un romanzo dovrebbe avere, infilare in un manicomio una ragazzina non matta. Particolari sono i nomi che I’ autrice, per voce della protagonista, attribuisce ai suoi personaggi e che rappresentano chiaramente le loro mansioni e soprattutto i loro difetti: Lampadina, Colavolpe,  Gillette per non parlare delle suore Culone, di suor Nicotina, di suor Culo di gomma e della dottoressa Riccioli d’oro.

L’ ironia che accompagna il racconto aiuta in qualche modo il lettore a superare lo sconforto che può nascere dalla lettura perché, per quanto scorrevole e leggera voglia essere la struttura della narrazione, c’ è sempre un profondo dolore che emerge continuamente.

La seconda parte narra di un tempo del tutto vissuto per la protagonista e il dottorino ormai non più giovani ma addirittura in età avanzata. Riemergono per tutti nuovi problemi e considerazioni non sempre positive del lavoro che è stato il filo conduttore della loro vita. Soprattutto è il dottore, preso in considerazione dall’autrice , con  i  forti problemi che deve affrontare in famiglia.

Federica Z.

Nel libro Viola Ardone riesce a raccontare la terribile e triste vita in un manicomio negli anni ‘80, prima e durante l’approvazione della legge 180 del 1978, nota come legge Basaglia, dal nome dello psichiatra che ha riformato il sistema di assistenza e cura della salute mentale in Italia. “La malattia mentale è un terreno buio e sconfinato” (p. 112). Siamo nel 1982 epoca in cui i manicomi erano luoghi di detenzione piuttosto che di cura. E le cure erano terribili: persisteva la contenzione meccanica prolungata, le camicie di forza, il coma insulinico e l’elettroshock selvaggio (introdotto nel 1938 da Ugo Cerletti con Lucio Bini). Il libro narra di Elba, figlia di una donna rinchiusa in manicomio, che è nata e vive nella struttura, che chiama mezzomondo e dell’arrivo di un giovane psichiatra basagliano che vuole aprire le porte dei manicomi, introducendo terapie più umane, il colloquio, l’ascolto e la psicoanalisi.

La lettura è scorrevole e, specie nella prima parte del racconto, emerge una certa ironia con rime, slogan pubblicitari e soprannomi che sembrano alleggerire il drammatico contesto narrativo. Nel manicomio, il  Fascione di Napoli,  sono rinchiuse donne che il mondo ha decretato folli.

E’ un viaggio di dolore, di emarginazione, di sofferenza dentro il manicomio, dove le donne sono rinchiuse senza la possibilità di tornare mai più ad una vita sociale: ”Far internare la moglie senza troppa fatica era una buona alternativa al divorzio” (p. 137). I motivi del ricovero o meglio dell’internato avevano spesso poco a che fare con la malattia mentale. Nelle cartelle cliniche dell’archivio del Fascione Elba legge: (p.173-174)  “stravagante, collerica, senso dell’onore poco sviluppato, madre snaturata, lunatica, mascolina, irosa… Vite spezzate riassunte in pochi aggettivi senza riscatto” Pag. 209 “dichiarate pazze dal padre, da un fratello, dal marito, per liberarsi di una moglie che non voleva più”. Elba legge la cartella clinica della madre:“nata  Berlino , coniugata … denunciata  dal marito per adulterio, internata a 25 anni per comportamento riottoso e indole libertina.. in stato di gravidanza… adultera, con istinti morali corrotti, il legame coniugale risulta annullato presso la Sacra Rota per infermità mentale della coniuge, espatriata, senza famiglia e quindi socialmente pericolosa…Non reclamata da nessuno, resta in stato di ricovero”(p.167) . Bisogna tener presente che con la  Legge n. 36 del 1904, Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati, ricovero coatto di persone alienate pericolose per sé e per gli altri e di pubblico scandalo; le persone internate perdono anche i diritti civili.

L’apertura dei manicomi non è stato un processo semplice ed immediato e non lo è ancora attualmente per l’esistenza di scarsi servizi territoriali e quasi inesistenti servizi domiciliari. Lo psichiatra Fausto Meraviglia tira fuori dal manicomio Elba e la porta ad abitare a casa sua per crescerla come una figlia. Ma Elba poi andrà via, inaspettatamente, ed in una lettera scriverà: “Ho la vita che voglio non quella che volevi tu” (p. 295).

 Meraviglia afferma “che il suo obiettivo è restare disoccupato, perché quando tutte le persone sofferenti avranno ritrovato un posto nella società questi luoghi di dolore non avranno più motivo di esistere. Gli ho chiesto che fine farà la mia Mutti – la madre – e tutte quelle come lei quando questi luoghi non esisteranno più, chi si prenderà cura del loro dolore. Mi ha risposto che sono state proprio le cosiddette cure a ridurle come sono adesso(p.165 ).

Elba annota nel suo “Diario dei malanni di mente” “tutte le fissazioni altrui…Avrei voluto trovare le cura per la mia Mutti grazie a quelle annotazioni, ma la sua unica malattia è stata il manicomio” (p. 223).

Francesca E.

Non è facile esprimere alcune riflessioni sul libro quando questo riscuote così tanto consenso nel nostro gruppo. Gli argomenti che tocca, i personaggi e il contesto che delinea sono sicuramente interessantissimi e non si possono che condividere le riflessioni che sono emerse nella nostra conversazione. Il libro però non mi ha preso, non ha soddisfatto le aspettative che pure gli argomenti che tocca e le situazioni che delinea hanno promosso fin dall’inizio. Ho letto altre cose della Ardone e, purtroppo, ho avuto sempre la stessa difficoltà ad essere coinvolta fino in fondo.
Infatti la mia parola chiave è ATTESA, perché nella lettura ho atteso che il testo mi prendesse completamente e, soprattutto, che il personaggio per me più interessante, lo psichiatra, fosse indagato nei suoi tratti così contrastanti con una maggiore profondità.
Le luci e le ombre di questo personaggio appartengono a molte biografie di grandi menti, come se accanto al dono di un talento, (e della dedizione assoluta nel perseguimento e nella realizzazione di una grande idea) convivessero anche scelte di vita discutibili, a tratti meschine, soprattutto della vita intima e familiare, davvero molto lontane dai toni grandiosi della loro vita pubblica, intellettuale o artistica.
È stato esemplare per me, in questo senso, conoscere la vita di Beethoven: quanta delusione ho provato, io giovane studentessa innamorata della sua musica, scoprendo che oltre ad una immensa bellezza e sensibilità musicale, Beethoven era capace di sentimenti controversi e a tratti riprovevoli, testimoniati, ad esempio, nella lunga e dolorosa vicenda giudiziaria per l’affidamento del nipote.
Un sentimento adolescenziale, la mia delusione, dal quale mi sono affrancata grazie a studi e interessi personali che mi hanno fatto avvicinare alla vicenda di Meraviglia con aspettative diverse rispetto a quelle che ho trovato nel libro.
Con la maturità, non ho provato alcun giudizio morale verso le sue vicende private. Ma neppure interesse per come sono state riportate. Nel senso che queste acquistano valore solo se aiutano a comprendere appieno il profilo esistenziale di personalità tanto complesse e controverse (come quella dello psichiatra) e ad avvicinare emotivamente il lettore al personaggio nella sua interezza. Invece, nello scorrere delle pagine, ho atteso, uno sguardo meno descrittivo e più introspettivo, più vicino alle fragilità e debolezze dell’uomo che vive e convive nel grande psichiatra e a come questi due aspetti autentici e antitetici di sé si siano integrati nel corso della sua esistenza. Avrei voluto conoscerlo meglio, questo Grande Meraviglia, con meno distacco e più vicinanza.

Giusy P.

Libro intenso che affonda le radici nel doloroso avvicendarsi di sentimenti e di emozioni che regolano la vita e presenta una umanità indifesa e inerme che può soltanto arrendersi all’immanenza degli accadimenti che ne scandiscono l’inesorabile trascorrere.

Lidia L.