Il Pane perduto è l’ultimo romanzo della scrittrice ungherese Edith Bruck risultato vincitore del Premio Strega Giovani 2021, finalista al Premio Strega 2021, vincitore della 92/a edizione del Premio Viareggio-Rèpaci Sezione Narrativa.

Il romanzo è’ stato scelto quest’anno  per celebrare il Giorno della Memoria da due Gruppi di lettura dell’Associazione SmartLab Europe: il GdL “Parole in Giardino” e il Club del Libro ” Su in collina e ….della crostata al bicarbonato.” Le lettrici dei due Gruppi ne hanno parlato e condiviso riflessioni  in collegamento online.

INCIPIT

La bambina scalza. Tanto tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nella viuzza del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi no. A volte si fermava e si introduceva di soppiatto nella cantina dove era spesso confinata e legata Juja; dicevano che era pazza ma a lei sembrava appena diversa dalle altre donne giovani e, con il suo cuoricino colmo di pietà, ascoltava i suoi lamenti contro la famiglia cattiva che non le aveva fatto sposare il suo ragazzo di nome Elek. Lei avrebbe voluto farle una carezza anche se era sporca, ma quando si avvicinò, non priva di paura, Juja le strappò il nastro rosso da una delle trecce, e prima che le strappasse anche l’altro fuggì, preoccupata all’idea di essere sgridata dalla madre o dalla sorella maggiore Judit, che si atteggiava a vicemadre.

Conosciamo tantissime testimonianze sugli orrori dei campi nazisti e sulle atroci sofferenze dei deportati. Qui si racconta la dolorosa vicenda di una ragazza di tredici anni alla quale è stata negata l’adolescenza: non più le tante domande agli adulti per soddisfare le sue curiosità, non più le corse felici per i successi scolastici, ma solo sgomento, terrore e le tante atrocità dei lager.

Commovente è l’insistenza con cui chiama “mamma mamma “ e la sua disperazione nell’esserne separata, nonostante la presenza e l’amorevole sostegno della sorella Judith (pag 42). Sconcertante è la perdita della percezione del tempo, infatti si domanda “erano passati tre mesi o tre anni?”  (Pag 45) e più avanti :” dopo mesi o anni, dopo il millesimo appello” (pag 49).

L’inferno di Ditke – vissuto prima nel campo di sterminio di Birkenau, poi nei vari campi di lavoro di Dakau e dintorni fino a Bergen Belsen –  dura in effetti circa un anno, dalla deportazione avvenuta nella sua “tredicesima primavera “   (pag 23 e pag 35) fino alla liberazione che avviene ad aprile dell’anno successivo, qualche giorno prima del “ quattordicesimo compleanno” (pag 60).

Il rientro da sopravvissuta non riesce a sanare le ferite profonde: le altre sorelle, rimaste fortunatamente a Budapest,  si dimostrano distanti contro ogni sua aspettativa e negano forme di aiuto per autodifendersi dal tifo e dalla fame. E  il fratello David , anch’egli salvo, è tutto preso dalla politica e dalla possibilità di andare in Palestina. Ditke capisce con dolore che “ le vere sorelle e i fratelli sono quelli dei lager. Gli altri non ci capiscono, pensano che la fame, le nostre sofferenze equivalgono alle loro “ (pag 73)

Il disincanto continua con il suo trasferimento nel neonato stato di Israele (è maggio 1948 e Ditke ha 17 anni) che non sente come patria, rifiuta il servizio militare perché odia le divise, si sposa ma non funziona perché il marito è geloso e violento e lei , dopo aver toccato il fondo, capisce che la sua dignità e la sua libertà sono più importanti di qualunque altra cosa.

Dopo la delusione con i familiari, prova quella con gli estranei: terribile è il gesto dei tre camerieri arabi suoi colleghi di lavoro, schiavizzati dal padrone e da lei compatiti che , invitati da lei stessa per un caffè, le offrono bottiglie apparentemente di birra dentro le quali c’è invece pipì ( pag. 93).

Non c’è speranza nemmeno nel comunismo, che sembra attrarre gruppi di giovani, perché lo stato ebraico non tollera ateismi e come afferma il cognato di Ditke “la vita è difficile fuori dal gregge” (pag 95).

I trasferimenti da Israele verso Grecia, Svizzera e da ultimo in Italia le assicurano la sopravvivenza e l’affermazione come persona degna di essere tale. Arriva l’amore , la fama per le sue testimonianze, arrivano le onorificenze, ma resta nella sua anima ferita il risentimento per quello che le è avvenuto e la nostalgia dolorosa del tempo in cui era bambina.                      *.

La memoria 

La scossa che da’  questa lettura fa correre il pensiero ai nostri ragazzi che sono abituati a vivere con agevolezza pur nei fisiologici problemi adolescenziali. Le istituzioni e la scuola hanno fatto e fanno molto per ricordare questi tristi eventi, ma sento che bisogna fare di più (parlo soprattutto per me che ho una nipote proprio di 13 anni) perché la memoria accesa sempre, e non solo nelle giornate commemorative, allontana dalla superficialità, dal fanatismo e dal populismo, di cui oggi si registrano nuovi rigurgiti.

La scrittura 

Ditke ha provato sulla sua pelle che familiari, estranei e contesto non offrono una via d’uscita al suo stato, sia fisico che psichico. Intravede la salvezza della sua dignità anche nella scrittura, senza temere

– ne’ il giudizio dell’amata sorella Judith: “gli altri non capiscono, pensano che la fame e le nostre sofferenze equivalgano alle loro, per questo parlerò alla carta”, e poi “la carta ascolta tutto” (pag 73),

-ne’ le minacce del primo marito che ne è geloso e vorrebbe fare a pezzi il suo scritto ( pag 90).

E successivamente quando decide di partire per Atene e lavorare come ballerina per mantenersi , desidera ad ogni costo scrivere “un libro, un diario …non avevo più preso la matita in mano… da quando non scrivevo?” (Pag 97).

Scrivere delle sue esperienze è la risorsa per risollevare la sua anima, ma anche per adempiere alla invocazione dei quasi morti del campo maschile: “racconta, non ci crederanno, racconta se sopravvivi, anche per noi” (pag 55).

È singolare che  questa “via d’uscita “ l’Autrice l’abbia scoperta subito rispetto ad altri sopravvissuti ad analoghe terribili esperienze ( penso a Sami Modiano che ha aspettato 60 anni prima di raccontare. Il primo libro della Bruck , Chi ti ama così, è del 1959, quando ha solo 28 anni).

La fede

Nelle ultime pagine c’è lo sfogo nei confronti di Dio che non ha visto il dolore e non ha modificato lo svolgersi delle agonie. Eppure la madre di Ditke si rivolgeva sempre a Lui per qualsiasi cosa ( anche per la sua stitichezza!), parlava con Lui più che con i sei figli e il marito. Ditke è stata sempre dubbiosa sulla Sua esistenza: “ a che servono le  preghiere se non cambiano niente e nessuno, se Tu non puoi fare niente” , “ti si crede ciecamente o ti si dubita lucidamente o la domanda resta sospesa tra te e me”. E alla domanda spesso rivoltale da studenti se crede in Dio risponde:  “arrossisco come se mi chiedessero di denudarmi”.

Ma alla indignazione per quello che ha vissuto, segue la preghiera al “Grande Silenzio “ di conservarle la memoria, che è il suo pane quotidiano perché ha ancora “da illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole e nelle aule universitarie “.  Altrimenti perché essere sopravvissuta?  E per questo lo ringrazia. Da tutto questo deduco che in fondo la fede c’è e che Ditke crede.